martedì 4 novembre 2014

FACCIAMO UN PO' DI ORDINE

Tempo di cambio stagione.

L'ultima volta che sono passato di qui era iniziata da poco una anomala primavera. Nuovi progetti, tanto impegno, troppa confusione. Risultato: un piccolo e semi sconosciuto blog di pochi mesi abbandonato per un periodo superiore alla somma dei suoi stessi giorni di vita.

Ma il Sottoscritto vive di ispirazioni anarchiche, incostanti e convulse. Per lunghi tempi rimane a macerare nel suo stesso caos. Poi, di punto in bianco, decide che è giunto il momento di mettere ordine, nella speranza che lo stato delle cose si conservi intatto per almeno qualche altro mese.

Ecco.

Giusto per dire che non sono sparito del tutto.
Qualcosa si sta muovendo...

Stay tuned...

lunedì 7 aprile 2014

Begius Box #1

GRAZIE A FRANCO E A STEFANIA, MA...

 
Due simpatici blogger(s) - perché io i plurali li ho imparati bene a scuola, insieme al decalitro e al decagrammo - dicevo, due blogfriends hanno segnalato il mio blog assegnandomi i premi di cui in alto i prestigiosi loghi.

Premesso che tuttora non mi è molto chiaro il meccanismo alla base, e che la cosa andrebbe ad assommarsi alle altre migliaia di cose che non mi sono chiare nel mondo del web, sono tuttavia felice per questi simpatici riconoscimenti (un piccolo passo per l'uomo, un grande balzo del sottoscritto verso il Nobel per la letteratura).

Però...

Però... Mi sembra di aver capito che, affinché sia valido, dovrò a mia volta segnalare qualche altro blog, rispondere a delle domande, fare un salto, farne un altro, far la giravolta ecc.

Mi piacerebbe moltissimo poter condividere tale prestigio con decine, centinaia di altri blogger(s), ma il mio problema è che passo poco tempo sul pc, non seguo molti blog(s) e i pochi che seguo si contano sulle dita della mano sbagliata di Capitan Uncino (dito più, dito meno).

Pertanto mi riservo di mettere da parte i premi, in vista del momento in cui potrò restituire la cortesia ad un numero valido di validi autori.

Nel frattempo lascio qui di seguito un breve elenco di blog(s) che ad oggi leggo SEMPRE molto volentieri. 

Grazie.

DBegiusC.


Non è molto, e so che in giro c'è tanto altro e di elevata qualità, ma per il momento mi bastano...




Asterisco #4

DIALOGO SUI MASSIMI SISTEMI RIPRODUTTIVI


Me lo ricordo ancora. Non riuscivo a capirci un bel niente. Troppe metafore. Mio padre ancora non si rendeva conto che stavo giungendo alla fase in cui erano da preferire spiegazioni forse un po' più esplicite, o per lo meno più chiare. 

Gli ci vollero esempi su esempi per farmi capire come c'era finito il mio cuginetto nel pancione della zia (cugino di cui, tra l'altro, ignoravo l'esistenza fino al giorno in cui vidi la suddetta con un qualcosa che andava ad imporre il suo generoso diametro ad altezza "punto vita"). 

Ma ancora più complesso era capire la "seconda fase": ok come c'è entrato... ma adesso come ci esce da lì?

Mi ponevo problemi strategici. E avevo solo 4 anni.


Certo, ora è facile riderci su... Ma se mi fossi trovato io al posto di mio padre?

Una mia amica era a tavola con suo figlio, un bambino molto intelligente. Non andava ancora a scuola e già sapeva leggere bene. 

Il piccolo mangiava tenendo lo sguardo perso da qualche parte, forse nei suoi pensieri, o forse...

"Mamma, che significa vergine?"

La mia amica è una a cui piace avere un rapporto aperto e sereno con i figli, moderna, colta, raffinata. Non è di quelle che si fanno cogliere dall'imbarazzo nell'affrontare certi argomenti. O almeno, non lo da a vedere. Giusto un leggero tremolio della voce, ma appena percettibile...

"Tu lo sai, mio tesoro, che ci sono delle differenze tra maschietti e femminucce?"

La stava prendendo larga, ma non troppo.

Il bambino inclinò il capo e annuì.

"Devi sapere che le differenze che ci sono tra un uomo e una donna sono molto importanti...", e iniziò una dettagliata descrizione di certe peculiarità anatomiche, cercando il più possibile di attenersi ad una terminologia specifica, esatta e chiara, mirata, se non altro, ad arricchire il delicato vocabolario del bambino.

Dopo di ché passò a spiegare per quale motivo "maschietti e femminucce non sono uguali", giungendo così a quella fase conclusiva del discorso in cui le tanto importanti differenze dovrebbero arrivare a magnificarsi in un atto sublime e speciale, tanto caro ai bisogni demografici della razza umana.



Il bimbo continuava ad ascoltare senza batter ciglio, giusto qualche masticata tra un boccone e l'altro.

"Quindi, quando l'uomo e la donna si uniscono in questo rapporto, si instaura un legame profondo tra i due. Però, finché... questa cosa che la mamma ti ha appena descritta non avviene, si dice che la donna è ancora vergine. Ecco spiegato cosa significa questa parolina. E' tutto chiaro?"

Il bambino rimase in silenzio per un po'. Poi assunse un'espressione incerta, perplessa, sembrava anche leggermente insoddisfatto.

Col ditino indicò qualcosa sulla tavola: "Ma allora perché qui c'è scritto olio extra vergine?"



giovedì 3 aprile 2014

Bedlam Club #5

LA MOGLIE DI CONRAD, IL VOLTO DELLA MORTE E LO ZARATAN DI SAN BRANDANO (Ma non necessariamente in quest'ordine)



L’idea di un Club che circoscrivesse e congregasse menti assetate di sapere ancora non si configurava nella mente di nessuno, ma si sa, l’ambiente talvolta determina caratteri e tratti somatici, così anche il nostro ambiente congeniale, il nostro battello solcante le acque del pensiero, il nostro garage (o meglio, quello di Nicola) dove regolarmente cominciammo a radunarci, fu quel medesimo luogo ad imporre e tracciare i connotati stessi del nostro prestigiosissimo Club. 

Quel sabato pomeriggio eravamo seduti in veranda a sorseggiare un succo di frutta. Si parlava dell’accaduto.

“Tu hai ragione, Nicola, però...”
“Però, cosa?”
“Voglio dire... mettiti nei suoi panni, tutto il giorno in casa...”
“Ho capito, ma tu mettiti nei miei. Con lo stipendio che prendo al Sigma ci devo campare una famiglia mica da poco, una moglie, un figlio, il Nonno, una zia paralitica, la badante, che mangia come un caimano, Cugino Cleonte...”

Tutti personaggi che entro breve tempo avrei conosciuto di persona. Per il momento dovevo accontentarmi delle brevi descrizioni che ne faceva Nicola.

“Ma perché, la zia e il nonno non ce l’hanno la pensione? E la zia non prende l’accompagno, con cui ci paghi Dragomira?”
“Sì, ma che c’entra, ...mi fai i conti in tasca?”

Certo, non volevo essere invadente né irrispettoso, semplicemente cercavo di vedere la cosa anche dal punto di vista di Marisa. Non che fossero affari miei, anzi, di solito mi tengo alla larga da questioni che non mi riguardano. Solo che iniziavo a considerare Nicola un amico, e a un amico si parla con franchezza. Se no che razza di amico è?

“Non voglio farti i conti i tasca. Però secondo me nemmeno dovresti lamentarti se Marisa si è presentata con quei capelli arancioni. Ok, sembrava un evidenziatore, ma ha fatto quello che poteva cercando di risparmiare. Poi mica è colpa sua se Rina, l’ultima cliente che ha servito era una superstite delle guerre puniche. Secondo me ogni tanto dovresti lasciarle qualche soldo per lei, potrebbe togliersi qualche sfizietto da donna, andare da un parrucchiere vero, comprare qualche cosa per la casa, insomma, sentirsi più soddisfatta. Che ti costa?”

Nicola rimase in silenzio. 

In quel silenzio lungo e profondo riflettei anch’io. Forse mi ero imbarcato in una questione più delicata di quanto sembrasse dall’esterno. In fondo cosa può capire uno come me delle pressioni che subisce un uomo che ha sulle spalle la responsabilità di una famiglia così articolata e insolita...

Svuotai la bottiglietta e guardai l’orologio. Si stava facendo tardi, era ormai ora di cena. Mi avrebbe fatto piacere un invito a restare: era da molto che ci si vedeva e si parlava di cinema eppure non avevo mai ricevuto un invito a cena. A dirla tutta non avevo ancora mai varcato l’uscio di casa Pozzarelli. Probabilmente ci voleva più tempo per guadagnare la fiducia di Nicola, e per un attimo temetti che con l’ultima conversazione avessi posticipato di un bel po’ il desiderato traguardo. 

In realtà, compresi molto tempo dopo, Nicola semplicemente aspettava per capire quale fosse il momento migliore e meno traumatico possibile per introdurmi in quel mondo strano, caotico e colorito che era Casa Pazzarelli. Quel che Nicola ignorava, invece, era che proprio in quell’ambiente avrei trovato il mio habitat naturale. Ma certe cose si comprendono col tempo, e io non sono uno che mette fretta alle cose, anzi, fosse per me, il tempo farebbe meglio a prendersela comoda. 

Come faccio di solito io.

“Perché non passi domani tarda mattinata? E’ domenica e io non lavoro. Potresti entrare a prendere un caffè.”

Usò proprio il verbo entrare

Entrare. 

Verbo intransitivo. 

Penetrare in un luogo, varcare, introdursi, andare dentro. 

Io entro, tu entri, egli entra. 

Intransitivo nella forma. Transitivissimo nella sostanza.

Era un invito: facevamo passi da gigante. Il destino stava tracciando a nostra insaputa il suo sghignazzante percorso verso l’Eden del nostro prestigiosissimo Club.

La domenica mattina percorrevo entusiasta il vialone di Cerciabella pronto a imparare da Nicola a scandagliare la vita attraverso i meccanismi del cinema. Ma invece di varcare la soglia di un’accademia del sapere, piombai nel mezzo di una discussione domestica. 

Marisa, sua moglie, aveva indosso la solita sbiadita parannanza, i bigodini tra i capelli ancora color cartoni animati, arrotolati come cannelloni sotto una specie di zanzariera verdastra e un paio di guanti di gomma gialli. Nicola in canottiera, calzoncini corti con laccetto e sandali di gomma la guardava attraverso le ampie lenti dei suoi occhiali e cercava di pararsi dalla veemenza con cui sua moglie lo affrontava, a difesa dei più nobili principi di igiene domestica e di riverenza mastrolìndica.

“Ho appena passato lo straccio, qui... Guarda cosa hai fatto... Ti vuoi togliere di mezzo, sì o no?”
“Guarda che in casa comando io e passo dove e come mi pare, chiaro?” 

Marisa sollevò lo scopettone: “Ah, sì? E allora fammi vedere come comandi tu. Prova a passare un’altra volta!” 
“Ma che razza di figura ci fai fare davanti agli amici, eh? (indicando il Sottoscritto) Noi due stiamo avviando un dibattito costruttivo sull’arte, la vita, il cinema, l’esistenza...”
“Un dibattito... tu e sto broccolo? Due come voi possono fare solo gare di pedate sul pavimento bagnato.”
“Non sono pedate!”
“Ah, no? E cosa sono queste?”
“Sono orme.”
“Allora ormeggiate da un’altra parte!”
“Io non prendo ordini da te, donna. Chiaro?”
“E io ti spacco lo scopettone in testa, uomo. Intesi?”
“Ma non capisci? Noi si discute di arte, si fa della filosofia... Che puoi capire tu, che al posto del cervello c’hai il dixan.”

Marisa si portò le mani ai fianchi: “Fatemi capire: voi due fate la filosofia in piedi nel corridoio mentre io lavo il pavimento? E tu che c’avresti nel cervello? La simmenthal?”
“Che vorresti dire?”
“Che non stai facendo filosofia. Stai facendo pedate!”

Fu a quel punto che Nicola sfoderò una delle sue citazioni argute, ficcanti, elegantissime.



“Sai cosa disse Conrad? Disse: ‘Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra in realtà sto lavorando?’”, e sorrise soddisfatto per quell’1 a 0.



Marisa non parve molto atterrita, anzi, reagì con un inaspettato contropiede: “Sai cosa disse la moglie di Conrad? Disse: ‘Come faccio a spiegare a mio marito che quando pulisco casa sarebbe meglio che se ne andasse a lavorare davanti alla finestra... lui e il suo amico broccolo?’”
Fu un netto 2 a 1! 



Conrad e il Broccolo dovettero battere ritirata.

“Andiamocene giù in garage. Là almeno staremo tranquilli.”

Fu così che ebbi accesso al garage di Nicola. L’ambiente era ampio, fresco, concepito, pare, per dar alloggio a ben due auto di grossa cilindrata. Ma in famiglia Pozzarelli si transitava da anni con una sola Ritmo 60 blu, sicché gran parte dello spazio rimaneva inutilizzato. Lungo le pareti laterali erano sistemati degli scaffali in metallo pieni di barattoli con le conserve dei pomodori. Alla parete centrale un tavolaccio con gli attrezzi. In un angolo notai un vecchio televisore, un Telefunken degli anni 80. 




“Funziona?”, chiesi.
“Credo di sì. Lo portammo qui quando comprammo il televisore nuovo. Solo che qui giù non c’è l’attacco dell’antenna.”
“E a che ci serve? Basta che ci si possa collegare un videoregistratore. Potremmo vedere i nostri film e parlarne indisturbati”.
“E’ vero. Mi sembra un’ottima idea!”

Eravamo entusiasti. Aprimmo un tavolino da mare un po’ arrugginito, di quelli con la scacchiera verde e blu da un lato e quel gioco assurdo con triangoli e punte dall’altro. Ci mettemmo sopra il Telefunken e ci accomodammo sulle sedioline, scegliendo ovviamente quelle con lo schienale. Così, mentre la moglie di Conrad detergeva l’Orrore dell’universo a colpi di Lysoform, noi avevamo trovato un posticino a nostra misura, per i nostri discorsi, i nostri film.

Il Regno di Conry e Brokky (per gli amici!) 

Col passare delle ore (e col susseguirsi di film in VHS e qualche strafogàta di tramezzini) quel luogo si figurava nella nostra mente come qualcosa di simbolico, pareva quasi offensivo chiamarlo “garage”. Cominciava a sembrare un vero e proprio tempio del sapere, aula magna di Sommo Scolarca, un qualcosa che la mia testa tentava di raffigurare contrapponendo due immagini analoghe e contrarie, che provavo a descrivere al mio amico più o meno in questo modo: la prima di un’isola, un approdo felice, punto fermo nell’oceano del Concetto; l’altra di una nave, un battello natante tra i mari della Verità. 

Mi sentivo tanto rinascimentale. E anche un pochino imbecille. Lo sapevo che non avrei dovuto mettere la senape nelle cozze la sera prima.

“Lo Zaratan.”
“Eeehh?”
“Lo Zaratan.”
“...”
“L’Isola di San Brandano.”
“Hemm...”
“Ma sì. Quello che stai dicendo... L’Isola di San Brandano, il prete che nel Medioevo viaggiò alla ricerca del Paradiso. Una storia antichissima. Viaggiò per lungo e per largo. Poi giunse su un’isola: lo Zaratan, o Yeson, a seconda della versione della leggenda. L’isola però non era un’isola normale. Era un pesce. L’enorme pesce che fu scambiato per isola. Approdo e natante al tempo stesso...”

Nicola stava dando un nome simbolico al suo garage e a tutto ciò che avrebbe rappresentato da lì in avanti per tutti noi. Pomodori compresi. Del resto, per un addetto al banco pesce, quale paradiso può mai essere migliore di un’isola ittica?



Quanto a me, mi chiedevo che razza di condimento usasse Marisa per le cozze. Comunque mi piaceva, rendeva bene l’idea di quel che sarebbe stato quel luogo entro breve tempo, cioè quando sarebbe nato il Club, il Bedlam Club.

Era notte quando uscii dallo Zaratan dei Pozzarelli. Avevamo visto sei film (divorando tramezzini e succhi di frutta) e su ognuno di essi intavolammo una ricca discussione (sui film, è chiaro, non sui tramezzini). Non avevo mai riflettuto sulle portata teorica di pellicole come “Quarto Potere”, “Taxi Driver” e “Mamma ho perso l’aereo”. Salutai Nicola ringraziandolo per la bella giornata trascorsa in sua compagnia.

“Ti accompagno.”
“Non occorre, grazie. Conosco la strada.”
“Ok. Allora ci vediamo domani sera.”
“Grazie. A domani.”

Mi incamminai verso l’uscita cercando di fare meno rumore possibile: l’ecosistema noto come Famiglia Pozzarelli a quell’ora doveva essere a riposo. 

O almeno così credevo. 

Fuori in giardino, sul viottolo che dava alla strada principale per poco non mi veniva un infarto: un tizio magro, alto, vestito di nero, con lunghi capelli e una lunghissima barba di colore grigio-bianco da sembrare il mago carogna del Signore degli anelli se ne stava fermo, immobile a fianco alla colonna del cancello, con gli occhi sbarrati e la faccia scavata che preannunciava tutte le fasi più lugubri e maleodoranti della morte. 



Se mi avessero fatto un prelievo di sangue in quel momento avrebbero estratto una granita. 

Ero diventato il sorbetto di Dracula. 

La Morte voltò lentamente i suoi occhi verso di me puntandomi contro il suo indice sinistro (manco quello destro!) nodoso e appuntito nell’estremità del suo lungo e giallognolo artiglio. Mi aspettavo che dicesse qualcosa come “è giunta la tua ora”, “preparati a pagare in eterno per i tuoi peccati” o “per me si va nella città dolente” o qualche altra cosa carina ed edificante da dirsi ad uno in procinto di abbandonare, suo malgrado, il reame terrestre. Sentivo crescere in me il pentimento, non tanto per i miei peccati, quanto per l’insana idea della sera prima di creare un effetto agrodolce aggiungendo la marmellata di prugne alle cozze con la senape. Giurai che avrei rinunciato ai miei esperimenti gastronomici in cambio della salvezza dell’anima: certi miscugli si pagano in banconote diarroiche. 

O strane visioni notturne. 

Tuttavia, invece della solenne chiamata, Caronte, senza spostare il suo indice d’accusa dal Sottoscritto disse qualcosa che lascerebbe sgomento chiunque: “La primavera irrora le sue gemme col sangue del silenzio.”

Quella voce sembrava provenire dall’Oltretomba. O da un tombino, fate voi...

“...Scusi?”
“La primavera irrora le sue gemme col sangue del silenzio.”
“Ehmm... Sì, certo... Anche il mio gommista me lo ripete spesso...” 

Non sapevo cosa pensare. Ero atterrito e spaventato. Cercavo un modo per oltrepassare la soglia del cancello senza incorrere nel fiato mortifero di quell’essere enigmatico. Cercai di fare conversazione: “Lo sa che ha proprio un bel taglio di capelli? Chi è il suo barbiere? Rasputin?”

Ma il tizio non rispose. Abbassò l’indice e si pietrificò. 

Così. 

Sembrava che la sua anima improvvisamente si fosse trasferita altrove dimenticando di portarsi appresso quel bagaglio di ossa canute che era il suo corpo.

“Signore?... Si sente bene?...”

Niente. Completamente assente. Cominciò a tremarmi la voce...

“Ehmm... Nicola? Nicola... Niiicoooolaaaa!!”

Chiamavo il mio amico, incurante di svegliare l’intero quartiere e senza spostare lo sguardo da quello spettro immobile.

Nicola corse in mio soccorso. 

“Che ti succede?”

Senza parlare indicai l’Amministratore Condominiale dell’Ade, ancora immobile nella sua posizione di trapassato verticale.

“Cugino Cleonte. Hai spaventato il mio amico. Tranquillo. E’ solo il Cugino Cleonte. E’ un po’ bizzarro, ma una brava persona...”

Mi girai verso Nicola esterrefatto: “Lo zio di Satana è tuo cugino?”

Nicola mi spiegò che non era un vero e proprio cugino e che non era nemmeno sicuro si chiamasse Cleonte. Era sempre vissuto in quella enorme casa, come Nicola del resto, e tutta la sua famiglia da generazioni (o almeno dai tempi della Bonifica dell’Agro Pontino). Nessuno ha mai potuto affermare con esattezza che grado di parentela avesse con la famiglia Pozzarelli. Era lì, viveva con loro da sempre. Ormai erano tutti abituati a quella figura innocua ed evanescente. Non si sapeva dove dormisse, dove passasse gran parte del suo tempo. Compariva così, diceva la sua e poi se ne andava. Dove? Nessuno l’ha mai saputo. Comunque a tavola qualcosa per lui gliela lasciavano ogni volta. Era pur sempre uno di famiglia. Pare che il suo vero nome fosse Armando, ma preferiva essere chiamato Cleonte, anzi, Cugino Cleonte, a ricordare il suo rapporto, come dire, tangenziale con la famiglia Pozzarelli, e non diretto.

“Ma ha detto delle cose...”
“Ha parlato?”
“Sì, perché non lo fa?”
“Raramente. E cosa ha detto?”
“Ha detto una cosa sulla primavera, sul sangue...”
“Non puoi essere più preciso?”
“Beh, chiediamolo a lui...” e indicai il punto dove credevo fosse ancora, invece, con mia grande sorpresa era sparito. Forse la sua anima ha preferito all’ultimo portarsi quel mucchietto di ossa come bagaglio a mano piuttosto che appiccicarci un adesivo con codice a barre e imbarcarlo sul Velivolo per l’Aldilà, qualora esistesse.

“Non... non c’è più...”
“Fa sempre così... E’ un vero peccato che tu non ricordi con precisione quello che ha detto. E’ importante, sai? Te lo dico per le prossime volte, è una regola di famiglia: quando parla Cugino Cleonte bisogna prestare la massima attenzione.”
“Perché? E’ un profeta? Un oracolo?”
“Perché potrebbero essere le sue ultime parole!”
“Oh, poverino. E’ malato?”
“Macché! Scoppia di salute!
“Dall’aspetto non si direbbe...”
“E’ vero, è sempre stato un po’ magro. Ma ti assicuro che nessuno in famiglia è più sano di lui.”

Non capivo... “E allora perché parli di ultime parole?”

“Devi sapere che da sempre Cugino Cleonte è fissato col fatto che si può morire da un momento all’altro. Beh, certo, questo vale per tutti, no?...”

E fin qui... grattatina a parte...

“...Hai mai pensato a quali potrebbero essere le tue ultime parole in punto di morte?”

Mi sentivo a disagio. Molto a disagio...

“Pensa che imbarazzo per un grande pensatore, che nella vita ha detto solo cose di profonda saggezza, se un istante prima di morire gli dovesse scappare una stupidaggine.”
“Non capisco, Nicola... Quello che conta è ciò che uno ha detto e fatto nella vita, non in punto di morte.”
“Anch’io la penso come te, ma Cugino Cleonte è di tutt’altro avviso. Secondo lui le ultime parole che un uomo pronuncia sono quelle più degne di essere ricordate per sempre. E’ fissato con questo pensiero. Per questo il nostro caro cuginetto non parla mai: ha paura di morire da un momento all’altro - cosa che in fondo può accadere a chiunque, no? (aridàjje!) - e che le ultime cose dette siano parole inutili o stupide o quantomeno idiote. Per questo passa lunghi momenti in silenzio a formulare quelle che possono essere le sue ultime parole e apre bocca solo quando ha completato un pensiero degno di essere ricordato in caso di dipartita, e per sua stessa disposizione tali parole andranno incise sulla sua lapide. Nel caso in cui la vita gli conceda una proroga, trascorrerà il resto del tempo a pensare ad altre ultime parole, e così fino alla fine dei suoi giorni.”

Strabiliante. 

“Capisci, quindi, quanto sia importante ascoltare bene Cugino Cleonte quando parla? Quell’uomo ti ha ritenuto degno di essere il depositario potenziale delle sue ultime parole. Ti rendi conto di cosa significhi ciò? Sei approvato! Sei uno di noi. Hai la benedizione di Cugino Cleonte.”

Non pensavo che fosse necessaria l’approvazione di Cugino Morte per far parte di quella strana comunità, il beneplacito di un uomo che pronuncia solo ultime parole. Sta di fatto che quella giornata fu una delle più significative della mia vita: varcai su agognato invito la soglia del Sancta Sanctorum Pozzarellicum, prese forma lo Zaratan di San Brandano tra i pomodori e la Ritmo 60 di Nicola, mi beccai una benedizione Broccolòide dalla moglie di Conrad e l’estrema unzione di Sua Funestà Cugino Cleonte. 

Mi ci volle qualche mese per ricordare e riferire con esattezza e solennità iniziatica quella dichiarazione di morte. Nel frattempo il Cuginastro aveva già pronunciato - comparendo qua e là - qualche altra decina di ultime parole. Ma non era questo il punto, il Sottoscritto era stato ritenuto degno di udire con le sue orecchie quel notturno testamento cleontico e aveva l’onere e l’onore di darne pubblica testimonianza. Ricordo ancora quando, seduti tutti a tavola, mi alzai in piedi e pronunciai davanti agli astanti quella roba liturgica e chirurgica fatta di primavera e sangue. Ci fu un applauso per il Sottoscritto. Ero commosso. Ero parte della famiglia. 

La mia nuova vita cominciava quel giorno, con la benedizione funebre di Cleonte. Presto sarei stato parte della Congrega sorta tra gli scaffali dello Zaratan e la Ritmo 60 di San Brandano. 

Il Bedlam Club era alle porte.


lunedì 17 marzo 2014

Bedlam Club #4

LA CANOTTIERA DI FERRO E LA PARANNANZA SEXY (IRON MAN - 2008)


La sensibilità di padre, come è giusto che sia, ebbe la meglio sulla fibra intellettuale di Nicola. Durante quei giorni eravamo tutti preoccupati per il piccolo Carmelo. Ci mise un po’ in effetti a riprendersi. Fu necessario parlare molto con lui, tranquillizzarlo, fornire spiegazioni il più possibile adatte alla sua tenera età senza indugiare su dettagli che in quella fase avrebbero solo peggiorato il suo stato emotivo. Fortunatamente cominciò a dare segni di ripresa. Dal canto mio, lo ammetto, più di qualche volta mi passò per la testa l’idea che il ragazzino abbia volutamente prolungato (e talvolta simulato) gli effetti del trauma, estendendo così di qualche settimana in più i benefici di un inedito sovraccarico di premure e concessioni. Ma era solo un mio pensiero e lo tenni per me. 

Un pomeriggio il piccolo si mise in testa che voleva vedere Iron Man


Ancora una volta proposi di noleggiare il film e guardarlo a casa mia, io, Nicola e il piccolo. Tra l’altro il mio invito capitò in un momento credo opportuno: Nicola e Marisa avevano appena discusso, seppure per un motivo estremamente futile, ma si sa, Nicola attribuisce sempre molta importanza a “certi” dettagli. In altre parole Nicola stava rimproverando Marisa perché a casa si faceva trovare spesso in disordine, trascurata, coi bigodini, le ciabatte e la parannanza presa sull'Euronova, in offerta insieme al gratta calli e a una specie di putto imbarazzante, ingegnato per erogare liquori esattamente da dove la natura umana (maschile) consente solo l’erogazione di acidi urici e... poco altro! 

Marisa ci rimase molto male. Non che mi ritenga così esperto di donne, ma credo che una signora troverebbe taglienti delle osservazioni (per quanto pertinenti) sul suo aspetto. Voglio dire, con tutta la parannanza dell’Euronova è pur sempre una donna, con un suo orgoglio femminile. Vuoi che non si offenda? Finirono per litigare. 
Così la mia idea di assecondare le insistenze di Carmelo capitò a ciccio, come si dice da queste parti. Naturalmente dovetti procurarmi un lettore dvd e imparare al volo ad usarlo, dato che un film così moderno non l’avrei certo trovato in videocassetta.
Portai i due a casa mia, lasciando la povera Casalinga a rimuginare sul suo orgoglio ferito. Azionai il lettore dvd e con grande entusiasmo di Carmelo guardammo Iron Man.

Insomma...

Devo dire, credevo peggio. In pratica c'è un ricco fabbricante di armi, un po' sbruffone, tra il dandy e il tamarro. Fa armi. E con le armi fa un sacco di soldi. Una giornalista gli dice sei insensibile, fai armi, uccidi la gente, roba del genere insomma. Lui niente. Continua a fare quello che vuole incurante delle opinioni altrui. Un tizio sicuro di sé.
Va in Afghanistan e là vede le armi da lui prodotte in mano a gente un po' scontrosa, e allora dice mio dio, cosa sto facendo. Solo che, dopo un risveglio traumatico, si ritrova con una calamita ficcata nel petto e dei fili collegati ad una batteria per auto. Intanto i tizi scontrosi gli ordinano di fabbricare un missile speciale, altrimenti lo avrebbero frullato come una pappetta plasmon. E fin qui...
Da questo momento in poi certi sviluppi mi giunsero un po’ incomprensibili, perché i talebani, giustamente, lo controllavano giorno e notte con una videocamera a circuito chiuso. E lui lì, a lavorare. E io mi chiedo, come si fa a chiedere a un tizio di costruire un missile, da solo, dentro una grotta, utilizzando dei rottami? E senza nemmeno la macchinetta per il caffè nella pausa delle undici! 

Ma lui è uno tosto, è iron man, cioè, non ancora, ma ha in mente di diventarlo. In effetti, dico io, se stai ficcato in una grotta, prigioniero in Afghanistan, con un compagno di cella che sembra l'analista schizzato di altrimenti ci arrabbiamo,
e dei guerriglieri imbufaliti ti ordinano di costruire un missile con i pezzi di uno scaldabagno, tu che faresti? 
E' chiaro, no? 
Ti costruisci una corazza da iron man

Chi non ci avrebbe pensato? 

E intanto lo osservano sul monitor...
...e dicono, cosa fa? 
...dice, lavora, costruisce il missile per noi, visto che bravo? 
...dice, sarà. Forse gli eroi dei fumetti i missili li fanno così... ma io non me li immaginavo a forma di canottiera di ferro. 
...?

...CANOTTIERA DI FERRO? 

Scoppia il caos! E via con mitra, fucili, bombe, ma lui... Lui è Iron Man. E li sbrindella tutti. Alla fine si ritrova con la corazza completamente smandruppata, forse perché nella grotta il cassettino delle vitarelle era un po’ sfornito. Allora torna a casa e se la rifà, più supereròica, con l'mp3 e il bluetooth per mandare i messaggini con le foto e le suonerie di fabri fibra. E da allora, dice, non voglio più costruire armi, ora sono bravo, sono un supereroe, e via con la nuova supercorazza a volare nel cielo e a combattere contro un nuovo nemico, più cattivo dei talebani. 

Insomma, un film per Carmelo. Niente di ché. Non era certo Senti chi parla, ma neanche un film completamente da buttare. 

Tuttavia, mentre rientravamo a casa, Nicola, da attento osservatore di dettagli nascosti, mi ha fatto riflettere sul fatto che il film si può prestare ad un’interessante chiave di lettura di natura... come dire... fiscale!

“Fiscale?”
“Sì, rifletti. Cosa accadde all’azienda del protagonista quando dichiarò che non avrebbe più costruito armi?”
“Le azioni calarono, mi sembra, del 57%”
“Esattamente. Di che materiale era fatta la tutina ipertecnologica?”
“Era d’oro e titanio”
“E allora perché si chiama Iron, che in inglese significa ferro? E’ semplice: era d’oro, ma sull’IRPEF risultava di ferro. Gran furbata!”
Eh, già... Anche per i supereroi sono tempi duri!

Intanto Marisa...

Per quella donna fu un pomeriggio difficile. I commenti di Nicola furono un boccone duro da mandar giù. Quando uscimmo di casa la prima cosa che fece fu andare in camera da letto e guardarsi allo specchio. Con suo grande rammarico dovette ammettere che forse suo marito non aveva tutti i torti. Così mentre noi eravamo a casa mia a guardare il film, lei uscì a fare alcuni acquisti. Poi passò da Rina, la moglie di Nando Er Lametta, che da ragazza lavorò in un negozio di parrucchiera, per farsi dare una sistemata ai capelli. Rina ammise che erano anni che non metteva mano ad una chioma altrui, ma avrebbe fatto del suo meglio...

Quando siamo rientrati abbiamo trovato una Marisa con i capelli rosso-arancione, le ciabattine coi piumini rosa, truccatissima, le unghie pittate di blu e una vistosa parannanza nuova con scritto SEXY. 
Carmelo per tutto il tragitto aveva zompettato eccitatissimo dicendo “io sono airommen” e riproducendo strani suoni con la bocca a significare la corazza che si azionava, e dalla bocca ogni tanto fuoriuscivano innocenti bollicine salivose. Alla vista di Marisa tutti e tre ci siamo pietrificati. Carmelo è rimasto con le braccia alzate e un pario di bollicine che ignare di tutto scoppiettavano sulle labbra. Marisa ci guardò e ammiccando verso Nicola disse: “Embè?” 

Capii l’antifona. Mi accomiatai inventando una scusa. 
Nicola in seguito mi raccontò che nelle intenzioni doveva essere una seratina speciale. Rimpinzarono subito Carmelo con una cena multipla multistrato a base di melanzane. Poi lo spedirono a letto. Quando si furono accertati che dormisse (dalle tonalità baritonali del suo respiro) si diressero verso la camera da letto, lei miagolando lui ululando. Fu una cosa terribile, tanto più che Carmelo si svegliò poco dopo per un improvviso attacco di pancia. Quando uscì dal bagno sentì dalla camera dei suoi genitori strani versi indecifrabili e pensò che fossero arrivati i talebani e li stessero randellando per bene. Intenzionato a salvarli, tornò in bagno e smontò il motorino del phon. Col cerotto se lo fissò in petto. Poi si infilò nell'incavo di un vecchio cestello della lavatrice rotta che Nicola aveva in garage e collegò i fili del motorino a una batteria per auto scovata in un angolo. 
Dovettero portarlo di corsa al pronto soccorso. Non tanto per la scossa, quanto per il fatto che non riuscivano a tirarlo fuori da tutta quella ferraglia. Al Santa Maria Goretti videro arrivare un tizio in boxer, canottiera, calzini e scarpe allacciate, una pazza dai capelli rossi sparati, il trucco spalmato sulla faccia che sembrava l'uomo tigre e la parannanza SEXY, e un ragazzino ficcato in una lavatrice ficcata nel bagagliaio della Ritmo 60. 

Alla vista di ciò chiamarono subito i carabinieri. 
In sala attesa c'era pure un immigrato afgano che li guardò e scosse il capo con tristezza.

mercoledì 5 marzo 2014

Bedlam Club #3

UBIQUITA' E SUSHI ALLA PESCATORA (SEX AND THE CITY - 2008)



“Salve”
“Buongiorno, Nicola. Prego, dopo di lei...”
“Ma si figuri, faccia, faccia con comodo...”
“Ma vuole scherzare... Mi permetta di tenere alzato il coperchione...”
“Grazie, ma non deve...”
Andammo avanti così a lungo, e ogni volta allo stesso modo, cortesi, cerimoniosi, ma formali, dandoci sempre del Lei. E intanto il povero cassonetto, guardando ora l'uno ora l'altro, attendeva sbavando il nostro fetido sacchetto quotidiano.
Il giorno prima gli avevo restituito la videocassetta e dalla chiacchierata che ne seguì mi convinsi che avrei imparato tanto da una persona del genere. Per diversi giorni continuammo ad incontrarci su quel ciglio di strada, davanti alla differenziata, a parlare di cinema. Si diceva che prima o poi avremmo visto un film insieme, ma i giorni passavano e ancora non arrivava nessun invito. Così un giorno presi io l’iniziativa e lo invitai da me. 
Per prima cosa ne parlò con Marisa, sua moglie.
“Vai a casa di chi? A fare cosa?”
“Mi ha invitato a guardare un film”
“Ma io avevo già chiesto a Rosaria di passare a trovarci”
“Embè? E’ perfetto! Ve ne state tra voi donne, tranquille, tu, Rosaria, Zia Mafalda e compagnia bella (da quelle parti si usa molto dire compagnia bella). Carmelo è col nonno a giocare nel parco. Cugino Cleonte... lo sappiamo, non è un problema.”
“Vabbè. Allora anche noi ci guardiamo un film”
“Brava. Mi sembra un’ottima idea”.
Trovarono quindi un accordo. Buon per loro. Buon per noi. Fu un pomeriggio indimenticabile. L’inizio di una lunga e profonda amicizia. Il giorno in cui cominciammo a darci del Tu. 
Nicola mi spiegava che per decifrare il linguaggio cinematografico è necessario prendere confidenza con alcune pellicole fondamentali nella storia del cinema, alcuni film che Nicola mi descrisse come pietre miliari, fondamenti imprescindibili, pilastri reggenti, menhir di cine-sacralità.  
Così le ragazze si gustarono la visione di un filmetto da donne, “Sex and the City”. 


Noi avevamo progetti più complessi, una roba virilmente strutturata, o strutturalmente virile, che desse luogo ad ampie e ricche discussioni sullo sguardo e il pensiero. Insomma, un film da uomini.
Quel pomeriggio guardammo “Senti chi parla”. 



Da questo punto in poi (almeno fino alla fine di questo capitolo) il dovere di cronaca mi impone di sdoppiare ubiquamente il punto di vista narrante, da voce immanente a narratore onnisciente, sebbene pare che l’onniscienza si addica al Sottoscritto nella stessa misura in cui sia sensato parlare di Hegel con uno gnu. 
Questo perché, nello stesso momento in cui Nicola incideva chirurgicamente e analiticamente le sequenze di quel film così importante, Marisa si stava lasciando plasmare da quell’universo sciccoso fatto di donne moderne, alla moda. 
Così da una parte la mente assetata di sapere del Sottoscritto viaggiava a velocità siderali tra le comparazioni teoriche di Nicola; dall’altra la mente vulnerabilmente casalinga di Marisa prendeva coscienza del fatto che altrove vi è un mondo dove le donne vivono una vita fatta di cocktail, moda, scarpe firmate e un via vai di uomini confusi e disponibilissimi. 
Da una parte il Sottoscritto si struggeva all’idea di un’esistenza trascorsa nell’inconsapevolezza, nell’ombra dell’ignoranza; dall’altra Marisa ripensava alla sostanziale differenza tra “The City” e Cerciabella, dove al posto delle scarpe sbrilluccicose da mutuo ventennale poteva trovare delle Melluso per Rosaria che soffriva per l’alluce valgo. Da questo lato del vialone un assorto Sottoscritto non distoglieva lo sguardo dal suo nuovo Mentore e Maestro; dall’altro una casalinga disperata misurava attenta i connotati della sua muliebre cerchia di amiche del cuore: Rosaria la Tabaccaia delle Castella, pingue e dondolante sui suoi piedini rinchiorti; Rina, moglie di Nando Er Lametta, un ospite fisso della Casa Circondariale di Velletri, la quale provò inizialmente (e inutilmente) a guadagnarsi da vivere lavorando come badante presso la malvagia e feroce Zia Mafalda; la Zia stessa, ottantacinquenne di Terracina, da tempo installata su un impianto mobile inizialmente concepito come semplice carrozzella da invalido, poi divenuta mano mano una struttura polipòide da cui si allargava un tentacolare via vai di tubi di catetere, ossigeno e flebo, con tanto di sacchette, bombolette, inalatori nasali e bracci di sostegno per boccette rovesciate; infine, a completare il cast l’Unica Vera Badante Possibile e Concepibile per cotanta Zia, la Colossale Dragomira, una moldava-bulgara-romena-non-s’è-mai-capito-bene-di-dove-fosse di centotrenta chili, dotata di solida robustezza di carattere insieme ad un innato temperamento cosacco.
I due film procedevano e si dipanavano, ignari l’uno dell’altro, ma soprattutto inconsapevoli dell’effetto profondo che avrebbero suscitato nelle menti di due personaggi diversamente assorti: il Sottoscritto capì che aveva passato tutta la sua esistenza nel buio; Marisa capì che la sua vita era uno schifo. Il Sottoscritto decise che da quel momento in poi avrebbe impiegato il resto dei suoi giorni a comprendere i misteri della vita scomponendone i segnacoli tra le parole attente e misurate di Nicola Pozzarelli; Marisa decise che forse non avrebbe potuto cambiare una virgola del suo vivere quotidiano fatto di tagliatelle e cif ammoniacal, ma almeno avrebbe dato una svolta decisiva al resto di quella serata.
Congedò le amiche (Dragomira trascinò di sopra una riluttante Zia) e si assicurò che Carmelo e il nonno fossero ancora nel parco a giocare. Quanto a Cugino Cleonte, quello non era un problema... 
Calcolò che di lì a breve il marito sarebbe tornato a casa e che per un po’ si sarebbero trovati soli, così le venne l’intuizione che avrebbe restituito un po’ di stile alla circostanza. Pensò di emulare una sequenza di “Sex and the City”, non ho ben capito quale dato che non ho visto il film in questione. L'idea era quella di farsi trovare “al naturale”, con porzioni di sushi ben distribuite nei punti “sensibili”. Ma a Cerciabella non è facile trovare del sushi, così si è cosparsa di risotto alla pescatora e si è posizionata sul tavolo in attesa che il marito rientrasse. 
Il problema fu che fece male i calcoli. Finito il film da donne, le donne tornano alla vita quotidiana. Finito il film da uomini (Senti chi parla) gli uomini ne discutono la sostanza per ore ed ore. Così Marisa si addormentò nell’attesa mentre gli uomini si salutarono dopo aver sviscerato viscere e frattaglie del sapere.
Nicola si incamminò inconsapevole verso casa. Al rientro notò uno strano traffico di gatti che andavano a scovare dei gamberetti freddati direttamente sul corpo della poveretta, la quale ronfava come un pitbull. Pensando ad uno scenario tipo Charles Manson, Nicola uscì fuori in strada urlando come un invasato. Marisa si svegliò faccia a faccia con un felino spelacchiato dalla cui bocca fuoriusciva un tentacolino di calamaro. Uscì fuori in strada urlando anche lei e disseminando mappazze di risotto alla pescatora sul marciapiede, inseguita da un'orda demoniaca di felini inferociti. Quando Nicola si vide arrivare incontro una pazza ignuda, con un esercito di bestie al seguito e una enorme chela di granchio sulle pudenda, svenne. Lei inciampicò sul corpo stramazzato del marito e immediatamente il famelico miagolume lì ricoprì stimolando la curiosità, per altro, di un imprecisato numero di roditori e un paio di sciami di vespe. Fu necessario chiamare la disinfestazione.
Due giorni dopo l’assistente sociale voleva portare via il figlioletto Carmelo, che aveva seguito tutta la scena dall’altalena del parco vicino casa. 
Per i successivi tre giorni era in grado di pronunciare solo le parole arùspice, stabbiuòlo e croton-tiglium.

Asterisco #3

DIMMI CARO...



Il capo.



Il capo è un uomo intelligente, preparato, efficientissimo. Sa intervallare con metrica sincopata volgare arroganza ed eclettica cultura. Dice le parolacce, ma si intende di lirica. Non esibisce mai la sua scienza. È un contagocce di erudizione: sa dispensare con la dovuta parsimonia il prezioso sapere, all'occorrenza, giusto giusto quando deve stendere qualcuno. Dispone di una particolarissima percezione bifocale, guarda all'immediato come al remoto, al fine come allo strumento, utilizzando con medesima destrezza ambedue le entità retoriche o progettuali che siano. Mangia come un alligatore, si dichiara contrario a quella cosa che chiama "snobismo enogastronomico", perché è uno contro tendenza, ma sa perfettamente quale vino abbinare all'arrosto. 
E' un sornione, sa gestire i silenzi meglio delle parole. 

Quanto alle parole, poi...

Poi mi chiama caro. 
Ciao caro, mi dice al telefono. 
Non sempre, però, solo quando le cose vanno bene. Se il fatturato precipita come il mio morale in certi periodi dell'anno, in tal caso ridivento Coluichesono. Se poi gli girano, spersonalizza l'interlocutore ricorrendo esclusivamente all'uso di verbi, possibilmente all'imperativo, abbinati con esattezza semantica ad appropriati complementi: dimmi, fammi sapere, manda l'offerta, manda il programma, leggétele queste ***** di mail.

Il più delle volte, però, mi chiama caro. 
Mi scalda il cuore che è una bellezza. L'avrà imparato in qualche corso di marketing: se vuoi far sciogliere i collaboratori come un calippo sul cruscotto devi farli sentire cari. Magari sarà anche vero, perché fuori dall'orario di lavoro è il primo a giocare a biliardino (ora, noi terroni lo chiamiamo biliardino, voi lanzichenecchi calcio balilla, ma è la stessa roba – tanto più che a biliardino io non ci so giocare). 

E' sempre il primo a proporre una bella mangiata, una bella bevuta, insomma: un buontempone. Se non sospettassi che per lui ogni suo gesto ed ogni sua azione sia parte di un preciso disegno, e che quel disegno abbia la forma di un grafico excell relativo ai fatturati mensili, proverei perfino simpatia per lui. 
Ok, lo ammetto, certe volte mi sta simpatico davvero. Poi penso: è solo perché sa fare bene il suo mestiere (non cascarci!). E' una perfetta macchina da lavoro, e nel suo lavoro è grande.

Torno a chiedermi: mi sta simpatico? Non lo so. So solo che se qualcuno mi sta simpatico non mi porrei questa inutile domanda.



Il tecnico.



Il tecnico è un brav'uomo. Di un'eleganza australopiteca, panciuto, dal passo un po' dondolante. Gli manca qualche dente, in compenso gli altri superstiti si esibiscono in un trionfo cromatico che spazia dal beige-seppia-cartapecora al color corteccia di cipresso. Sorvolo delicatamente sull'alito. 
Racconta barzellette talmente imbecilli che fanno perfino ridere, non le barzellette, fa ridere lui, perché poi ti chiede pure se l'hai capita. Personaggio ruspante. Ogni tanto ne combina una delle sue, ma è un brav'uomo e gli vogliamo bene.



Il mio collega.

Il mio collega è uno in gamba. Era un tecnico. Diligente, preciso, spiritoso, puntuale, cordialissimo, corretto, intelligente. Uno così è sprecato come tecnico. Passa a commerciale. Ci sa fare. Non che abbia fatturati elevatissimi... però ci sa fare (e comunque fattura sempre più di me!), ha esperienza, affabilità, esperienza. Spesso mi ha tirato fuori dai guai. Lo stimo. 

Abbiamo anche cenato insieme diverse volte: insomma, andiamo d'accordo, è un tipo alla mano, mi piace. 

Fa carriera, diventa responsabile di filiale. Chi meglio di lui? Anche perché la scelta sarebbe limitata, o lui o io. E io non ho la sua anzianità e la sua esperienza. Il miglior candidato è lui. Il suo lavoro lo fa discretamente.





Poi ti arriva il capo, il mio capo, il nostro capo, quello che dice caro. 

Ci da delle dritte, ci illustra un progetto ambizioso, un progetto che richiede che ci si dia da fare, c'è da rimboccarsi le maniche, dare un metodo al lavoro, impegnarsi con degli obiettivi. 

Ad ogni riunione ho come il sentore di appartenere alla compagnia dell'anello e che il futuro dell'universo dipenda solo dalla riuscita della nostra missione. Però rispondo dicendo: “...sì, è vero, credo che ottimizzando le energie si possa correggere il tiro, centrare meglio gli obiettivi... forse è necessario un approccio più analitico al panorama generale dei clienti non movimentati, effettivamente si percepisce una certa diffidenza generale, ma questo penso che dipenda anche in gran parte da come ci poniamo davanti ai clienti, sono d'accordo sul fatto che bisogna dare una sterzata significativa all'andamento delle vendite, secondo me tutto è riconducibile ad una buona pianificazione della settimana lavorativa, probabilmente dovremmo verticalizzare la proposta in modo da aprire una serie di opportunità nuove laddove ovunque si avverte una certa reticenza generale all'investimento...” e potrei andare avanti così per ore: tutte frasi intercambiabili accompagnate da un adeguato tono riflessivo e qualche pausa con sguardo obliquo verso l'alto, che fa tanto persona matura (tutti espedienti col solo scopo di accelerare il processo di scioglimento della sessione-meeting). 

Il discorsetto sulla filiale, ad ogni modo, va avanti. Il capo dice che dobbiamo arrivare a questi risultati, dobbiamo raggiungere questi livelli, a tal fine il responsabile farà da supervisore tecnico-commerciale: ogni cosa, ogni programma, ogni richiesta deve passare attraverso l'ok del responsabile, cioè il mio collega. 

Passa quindi in rassegna i punti che delineano la figura del perfetto responsabile di filiale.

Insomma, fin qui tutto normale, tutto giusto. 
Ci saluta e se ne va verso l'orizzonte, come Maciste (“rimani con noi” “no, non posso, in altri luoghi c'è bisogno di me... addio... un giorno tornerò”... FINE).



Riunione interna, io, il collega-responsabile e il tecnico. 
Progetti a breve e a lungo termine. 
Si discute su come mettere in atto il sacro verbo del nostro capo. Piano di lavoro. 
Relazione. 
Stampa. 
Fine della riunione.

Io alla mia scrivania, il mio collega alla sua, il tecnico nel suo reparto tecnico. 

Poi il brav'uomo, il tecnicopithecus si riaffaccia nel nostro ufficio per un chiarimento. 

E il mio collega: “Dimmi caro”. 



Mi crollano le braccia. Mi crolla il mondo. Tutto precipita. 
Come un paracadutista che si è scordato a casa l'attrezzatura. 

Ho capito bene? Non l'avevo mai sentito rivolgersi così a uno di noi. Non prima che fosse insignito dell'alta onorificenza capofilialìtica.

Dimmi caro.
Vi lascio immaginare la mia faccia...

Dimmi caro?!?

Da dove è uscita mai tutta questa improvvisa... come chiamarla? carezza... carità... carineria... carosità... carosaggine... carosùme... carognanza?...

Perché è così facile conformarsi? Basta assumere un ruolo qualsiasi in questa pantomima, che già ci si costruiscono i modi e gli atteggiamenti necessari. 
Per ogni impresa c'è l'abito adatto. In questo caso, poi, deve essere della taglia xxl del mio capo. Somigliare al capo il più possibile. Per sentirsi capo a sua volta.

Una volta il capo tirò fuori un discorso sulla leadership, una cosa fluida, incorporea che ti scorrazza tra le budella e gli aminoacidi ascellari, e farebbe di te un leader, una roba che ci si nasce, mica ci si diventa. Un leader è uno che quando parla trascina, gli altri ne percepiscono la leadership come i quadrupedi i feromoni. E quando ci si succubizza al leader, si tende ad imitarlo, ad assumere il suo stesso modo di parlare, le sue battute, la sua mimica.

Sarà la sinusite, ma io i feromoni non li sento. 
Sento solo un certo prurito davanti a tanto conformismo. 

Cosa si prova quando ci si rivolge ad un diretto inferiore chiamandolo caro? Ci proverei anch'io, ma non ho nessun sottoposto con cui tentare l'esperimento. Quando ero bambino brontolavo perché non capivo certe gerarchie, secondo le quali in famiglia chi è più grande comanda. E' banale, ma io non lo capivo. Pensavo piuttosto che potesse essere una cosa da fare a turno, solo che il turno mio non capitava mai: “Quando c'è papà comanda papà, se c'è mamma comanda mamma, se non ci sono loro comanda  mia sorella  più grande di sette anni – ma io a chi comando?” 
E ci piangevo pure! 
“Ai gatti!” era la risposta ironica di mio padre. 

Una volta ce l'avevo i gatti. Il mio preferito si chiamava Vercingetorige. Ora vivo in un appartamento e i gatti non ce l'ho più. Non ho più nessun sottoposto con cui tentare l'esperimento (dimmi caro... che brivido... che sensazione di potere... di grandezza... io, che dico a te, povero paramecio sociale: dimmi caro... e con un sereno gesto gesto della mano dispenso la mia benedizione su di te e sulla tua progenie...)

Vabbè, dai, che c'è di male? In fondo il mio capo lo sa perfettamente, ti dice caro perché ti fa sentire bene, scalda dentro. In altre parole: quando mi chiama caro, gli darei un pugno sul naso, ma lo farei col cuore a bagnomaria... vuoi mettere?

Ok, ci do un taglio, anche perché mi sono stufato. E ho fame.

Al bar c'è un tizio dietro al banco, pieno di tatuaggi. E' tutto uno zampillare di simpatia ardeatina e gel per capelli, ha un sorriso che non so perché ma mi fa pensare alla maionese. Si muove un po' a scatti spostando il peso da una gamba all’altra, pare che tenga il ritmo di un ballo da discoteca che ancora gli rintrona nel cervello dal sabato prima.

Fisso un tramezzino. 
Il soggetto ardeatino fissa me.
Mi sorride: “Dimmi, caro”. 

La lancetta dell'autocontrollo precipita in riserva.