mercoledì 11 dicembre 2013

Asterisco #1


VOCE DEL VERBO ASTERIRE



Forme verbali sostantivate. Che cosa fantastica. Mutazione del tessuto molecolare di una parola. Una roba da alchimista della lingua. In chiesa si espone un credo, il debitore compila e firma un pagherò. Entrano nell'uso quotidiano, non ci fai caso. Anche quando mangi un gelato, stai leccando un participio che in inverno evoca un certo disagio.

Credo che nessuno di noi sia in grado di ricordare l'esatto momento in cui ha sentito per la prima volta tutte le parole che poi ha incluso nel proprio vocabolario. Non tutte, ma forse alcune sì. Io ad esempio ricordo da chi ho sentito per la prima volta la parola “asterisco”. Mia moglie dice che gran parte dei miei ricordi di infanzia sono frutto della mia fantasia. Lo dice perché secondo lei è impossibile ricordare certe cose. Io però me le ricordo. Se avessi una fantasia tale da poterle inventare, perché allora sono un normalissimo cretino e non un grande scrittore? Me le ricordo perché non le ho inventate. Sono accadute veramente. Volete forse dubitare di quello che ricordo? Allora dovreste dubitare anche di tutti quelli che sono stati rapiti dagli alieni, o che hanno avuto la superna chiamata da San Girolamo Eusebio, o che hanno visto la luce in fondo al tunnel dell'estremo trapasso.

Essù...

La sentii pronunciare da mia sorella. Leggeva a voce alta. Io leggevo con lei.

Cosa?

Non me lo ricordo: perché mia moglie dice che è impossibile ricordare certe cose.

"Qui c'è un asterisco"

Ecco cosa pensai: asterisco è una voce del verbo asterire, indicativo presente prima persona singolare, io asterisco, tu asterisci, egli asterisce. 

Il più abile in questo genere di azione: Asterix. Vabbè, questa è imbecille abbastanza. Poi la cancello. Se mi ricordo. 

Quanto al significato del verbo asterire... si chiede troppo.

"Qui c'è un asterisco...", e via l'occhio a leggere attentamente il contenuto di quella nota, di quella specificazione, un po' più piccola, più in basso, importantissima.
L'asterisco quindi per me era il contenuto, il paragrafetto, non la stelletta, da aster, astro, stella. 



Che poi quella nuova voce verbale fosse preceduta dall'articolo, non mi era sembrata una cosa strana, anche perché a quell'età, diciamocelo, si è presi da dilemmi ben più seri, che vertevano ovviamente intorno raggio protonico di Jeeg Robot d'Acciaio.

Poi non so come ho scoperto il vero significato della parola.

Cioè, lo so ma non me lo ricordo: perché mia moglie dice... insomma, ci siamo capiti.

In seguito il tizio astrale ha trovato pure un compagno, sebbene dal nome più cretino: cancelletto #, per non parlare della chiocciolina @.

Infine gli scarabocchi si sono piazzati definitivamente nel quotidiano e da allora ne è passato di tempo. Ora sono adulto, sono un uomo. Così almeno pretende il mio IRPEF. 

Eppure, da allora non ho mai smesso di asterire.

E' quello che so fare: io non scrivo, io asterisco.

Ho asterito i miei pensieri, i miei sentimenti, le mie paure. 
Sono l'addetto alle note, il curatore dell'apparato critico della mia vita. Ancora non sono mai riuscito a redigere il testo principale della mia esistenza, solo le note in calce, sparse qua e la, appendici amorfe prive di un senso se non ancorate al soggetto base, che poi sarei io, indecifrabili se prese singolarmente.

Questo ho da offrire, per il momento: un mucchietto di note.

Fintanto che mi basterà solo asterire la mia vita, continuerò a farlo. Il giorno in cui sarò promosso a redattore principale, sarete debitamente informati.

Cordialmente.

Bedlam Club #1

BENVENUTI  AL  CLUB  (BEDLAM - 1946)




In principio era il Club.
Andò formandosi lentamente, un embrione immerso nella noia amniotica di una strada ghiaiosa e deserta. Una bifamiliare, un garage, un pollaio di rete e lamiera ondulata e un via vai di facce: le solite facce, la solita gente. Ed è proprio nell’afa e nel silenzio del vialone di Cerciabella che un manipolo di spugne assetate di sapere aspetta ogni settimana di riunirsi nel garage di Nicola, sede del prestigioso Club, tra gli scaffali delle conserve dei pomodori e la sua Ritmo 60 blu, per parlare di cinema, arte, società, cultura e metodi per la conservazione dei carciofini sott’olio. Personaggi approdati per caso negli sprofondi di quel placido quartiere, come il Sottoscritto, che però hanno scovato in quel tempio l’habitat ideale per dissetare e idratare quell’arsura screpolata dell’ignoranza e rincrepolarla con la conoscenza.
Sacerdote massimo in questo santuario di luce, il mio amico Nicola Pozzarelli, esperto di cinema (nonché addetto al banco pesce del Supermercato Sigma di Cori).
E’ dovere del Sottoscritto, in qualità di umile e indegno cronista, dare resoconto delle gesta e del pensiero del nostro Mentore, narrare gli atti, la vita e i successi dei suoi fedeli seguaci, membri del prestigioso Club, diffondere il verbo del Bedlam-pensiero con accuratezza logica e cronologica.
Questo il dovere.
Ma considerando le limitate capacità di cui dispongo, accontentatevi di una cronaca stilata “così come viene”. Anche perché in tutto il Club, il Sottoscritto è l’unico in grado di mettere giù due parole appena sensate, malgrado la costante indecisione di riferirsi a se stesso in prima o in terza persona.
Pertanto...
Sarebbe bello poter dire: “Tutto cominciò quel giorno in cui...”.
In realtà tutto cominciò un pomeriggio, quando tutto era già cominciato da un pezzo. Mi spiego meglio. Il Club era già bello che costituito e collaudato. Ogni lezione, ogni discussione, ogni dibattito ormai da tempo allargava in noi l’angolo di luce del sapere, con l’inebriante effetto simile a quello delle bollicine della coca-cola nel naso.
Solo una cosa non mi era ancora del tutto chiara.
Fino a quel fatidico pomeriggio.
Mi precipitai a casa di Nicola su tutte le furie. Quella fu davvero la volta in cui la nostra amicizia rischiò di rompersi per sempre. Vatti a fidare degli amici. Appena ti distrai un attimo, zac! ti pugnalano alle spalle.





SweeneyTodd”.

Così si chiamava quel film cantoso e sanguoso che fu all’origine della mia rabbia.
Come ha potuto (mi chiedevo)? Come? Uscivo di casa disgustato, ferito, mortificato, ma soprattutto determinato ad affrontare la questione di petto.
Ero davanti l’uscio di casa Pozzarelli. Bussai a lungo con la furia di un pazzo finché non si aprì. Ci trovammo così faccia a faccia. Io e Nicola. Notò subito il mio ciglio feroce. Non ebbe alcuna reazione.
Tacemmo a lungo, fissandoci.
Pensai: “Sono anni che ride di me”.
Pensò: “Ecco a chi ho regalato le mie bretelle azzurre dei Simpson”.
Seguii il suo sguardo e capii al volo cosa gli frullava nel cervello, valutai perfino l’ipotesi di sbarazzarmi di quell’indegno elasticume tirandoglielo in faccia con disprezzo, se non fosse che avrei dovuto seguitare il litigio reggendomi le braghe. Così conservai con sfrontatezza gli accessori di sostegno ai miei precari paramenti e venni al dunque: “Sono anni che mi porto addosso il nome BEDLAM dietro tuo suggerimento, nella posta elettronica, nei forum. Perfino il nostro Club l’hai chiamato così e oggi scopro che mi hai dato (ci hai dato) il nome di un manicomio. E’ questa la stima che hai di tutti noi? Di me? Un manicomio! Accidenti a te! (voce rotta) Come hai potuto! (snif, snif) A me, il tuo migliore amico (lucciconi agli occhi)”
Dovetti fermarmi a prendere fiato, altrimenti sarei scoppiato in lacrime, e il mio orgoglio mi vietava di cedere e liquefarmi così davanti a colui che mi tradì. Mi aspettavo una sua reazione altrettanto forte, un putiferio inestinguibile. Ero pronto a tutto, anche a venire alle mani.
Non riuscivo a capacitarmi della cosa. Quante cene dei cretini avrà organizzato il mio amico Nicola ridendo alle mie spalle. Per qualche secondo Nicola rimase in silenzio. Poi parlò. Spiazzandomi, come ogni volta: “Ti va un succo di frutta alla pera?”
Accidenti! Quest’uomo sa come prendermi!
Accettai il drink ma non volli sedermi. Mi doveva delle spiegazioni. Che non tardarono ad arrivare.
Quanto volte, amico mio, ti ho detto di guardare oltre le apparenze?”
E’ vero, lo diceva sempre.
Stappò una ZUEGG avanzata dal Sigma, scaduta solo da un paio di mesi. Me la prose. Sorseggiai direttamente dalla bottiglietta, come piace a me.
Ricordi quando ti parlavo del collegamento tra il cinema e la chiave dell’esistenza?”
E anche questo era un suo ritornello costante in ogni dibattito. In altre parole Nicola sostiene che la vita altro non è se non la continua ricerca di ciò che è bello, piacevole. L’arte è l’espressione massima del bello, e il cinema è la somma...
...la somma vetta dell’arte. Ti ricordi? Ne parlammo diverse volte. Ebbene, mio caro, Bedlam è il cuore pulsante del cinema, che è la somma vetta dell’arte, che è l’espressione della bellezza, che è la chiave dell’esistenza...”
Insomma, una roba tipo cane-gatto-topo-fieradellèst.
Cosa voleva dire
Mi spiegò che di quel luogo non se ne parla solo in Sweeney Todd. Anche un signore di nome Shakespeare ne parlò, ma non è questo il punto. Fu allora che mi raccontò di un vecchio film in bianco e nero, “Bedlam”, appunto. 


Un manicomio, dove i matti rinchiusi erano costretti da un malvagio direttore a recitare in grottesche rappresentazioni. Siamo in epoca vittoriana, che in italiano significa tanto tempo fa. Mi raccontò in poche parole ciò di cui parlava il film. Poi mi disse qualcosa di stupefacente: esattamente ad un’ora dall’inizio del film, proprio al 60° minuto, c’è un dialogo che pochi hanno notato, ma sul quale poggia l’essenza del cinema, e di conseguenza, risalendo via via in ascesa fieradelléstica, l’essenza stessa della vita. Uno dei rinchiusi mostra ad un altro dei disegni su un taccuino. Sfogliandolo velocemente i disegni sembrano prendere vita. Il concetto cinetico che sta alla base del cinema: immagini in movimento. Al ché il tizio spiega che se si potesse proiettare con un fascio di luce quelle immagini su una superficie chiara si potrebbero vedere delle immagini ingrandite che prendono vita. L’altro, visibilmente colpito da questa idea aggiunse che si potrebbe far pagare l’ingresso alle persone incuriosite da questa sorprendente novità. Così il tizio, con una certa amarezza spiega: “E’ per queste mie idee che mi hanno rinchiuso qui dentro!”

Capisci, mio caro? Il cinema in quanto idea affonda le sue radici negli sprofondi oscuri di un vecchio manicomio, nelle ombre antiche di uno scantinato vittoriano, perduto nel tempo e nella memoria, nel regno della sovrana pazzia. Il cinema è pazzia. La follia è la formula che schiude e decifra i meccanismi incomprensibili della natura, della vita. Non è forse pazzia rimanere fermi mentre un treno in corsa, il treno dei Lumière, ci piomba addosso? Alcuni si spaventarono e si spostarono. Solo un pazzo rimarrebbe fermo, e noi siamo i pazzi che si sono lasciati travolgere dal treno, dal suo carico di storie, dai suoi vagoni di emozioni, di risate, di lacrime, di paure. Non è forse pazzia fissare delle macchie irregolari di nitrato d’argento su celluloide e leggervi delle storie, ed emozionarsi per esse? Macchie, sedimenti con forme diverse. Questo e non altro c’è su una pellicola. Ma quando siamo al cinema non sono macchie quelle che vediamo, sono racconti, visi, paesaggi, avventure. Cos’altro è la pazzia, se non vedere ciò che non c’è? Questo, amico mio è il cinema. Questa è l’arte. Questa è la vita. E Bedlam è la sua cassa toracica più profonda. In essa batte un cuore. E quando il tuo cuore batte per i duelli di Clint Eastwood, o per gli sguardi tra Ingrid Bergman e Humphrey Bogart o per le evoluzioni di Buster Keaton, sappi che è lì che quel cuore batte, nelle oscure stanze di Bedlam.”
Avevo gli occhi lucidi. Mi succede sempre quando mi scolo col risucchio l’ultima goccia di ZUEGG alla pera e finisce che me la mando di traverso. Ero tutto concentrato a trattenermi dal tossire che non capii un accidente di tutto il discorso bedlòmico che mi fece. Resistetti ancora un po’, con qualche timida convulsione. Poi esplosi tossendo ed estromettendo dal mio serbatoio respiratorio rantoli, tracce di pera e brandelli di anima sulla faccia esterrefatta di Nicola. Il poveretto fu investito da una massa di roba che pareva risalire direttamente dall’impianto fognario del manicomio di cui sopra. Istintivamente tentò con l’avambraccio di riparare la faccia da quei proiettili di rabbia e ZUEGG, ma calcolò male le distanze e picchiò violentemente il gomito sul mio mento. Di riflesso buttai il busto all’indietro, ma un fermaglio delle mie bretelle, con la faccia ridente di Homer, si staccò e schizzò dritto sul naso del mio amico. Un fiotto del suo sangue tracciò sul pavimento la breve distanza tra me e il mio interlocutore dolorante. E fu proprio su quella striscia rossa che Nicola scivolò, e cadendo urtò la mia persona ancora alle prese con tentativi asmatici e sonori di ristabilire una più normale respirazione. In un attimo gli altri fermagli bretèllici si sentirono autorizzati ad imitare il compagno girovago e nel giro di pochi istanti mi ritrovai con le braghe calate. Persi completamente l’equilibrio e crollai addosso a Nicola, che tentava con difficoltà di risollevarsi.
Fu in quell’istante che si aprì la porta e sua moglie Marisa entrò in casa, con le buste della spesa, e mi trovò in mutande, con gli occhi di fuori, ansimante come un depravato e accovacciato addosso a Nicola che mugolava dal dolore. Vide quello spettacolo e urlò di orrore coprendosi gli occhi. Il figlioletto Carmelo entrò al seguito e si pietrificò alla vista del babbo in atteggiamenti equivoci col suo migliore amico. Pensando di proteggere la creatura innocente, Marisa spostò le mani dai suoi occhi a quelli di lui, esponendosi nuovamente alla scena. Ricominciò ad urlare e si ricoprì la faccia, scoprendo quella del piccolo che gridò a sua volta. La povera donna non sapeva più su quale faccia mettere le mani. Optò per quella del marito e del povero Sottoscritto. Fu una carneficina, alla quale si unì il piccolo Carmelo con la ferocia di un manga giapponese.
Non seppi mai quanto comprese la povera donna delle spiegazioni che confusamente e animatamente cercammo di trasmetterle, mischiando concetti profondi come succhi di frutta, bretelle di Homer e pazzi di Bedlam. 
Una cosa è certa: se devi litigare col tuo migliore amico, meglio un pantalone da tuta elasticizzato.